I libri di Alessandra Arpi: blogger di The Social Effect

Ha sempre voluto fare la giornalista e, per quello che ho letto da e di lei finora, sta dimostrando di essere una giornalista valida, oltre che brava. È precisa, metodica nell'approfondire le informazioni, nel fare informazione. È leggera, ma mai superficiale e ha un senso dell'umorismo raro. Oggi ospito il Curriculum del lettore di Alessandra Arpi. L'ho letto diverse volte ed è uno dei miei preferiti, il testo scorre via piacevolmente, rivelando una persona alla quale vorrei proprio stringere la mano per come scorre via, semplice nella forma, raffinata nelle letture.




Curriculum Del Lettore di

Alessandra Arpi

Giornalista, consulente digitale e lettrice sopraffina

#CurriculumDelLettore della giornalista e consulente digitale Alessandra Arpi Alessandra Arpi (The Social Effect)

Parlare dei libri che mi hanno segnata mi mette sempre un po' a disagio: ogni volume letto mi ha cambiata a modo suo. Chi più chi meno, c'è una traccia di ognuno in me. Anche di quelli che non mi sono piaciuti per nulla. O che non mi sono piaciuti la prima volta ma poi ho amato anni più tardi. Alcuni si sono presi posto nel mio mignolo destro del piede, a sostenere l'equilibrio. Altri il polso sinistro, ad accompagnare i miei gesti. Tanti sono nel cuore, molti nella testa, parecchi sulla lingua, assaporati con calma o inghiottiti con voracità. Ecco perché stilare una lista dei racconti che formano il mio Curriculum del lettore mi mette a disagio. Dovrebbe essere una piccola Bibbia. Ma per la dolcissima Rita questo e altro.

Quindi eccoci qui. Che dire di quella bambina testarda che ero, fermamente convinta delle proprie idee già da piccina ma paradossalmente attenta all'approvazione degli altri, combattuta tra quella che voleva essere e quella che gli altri volevano che fosse? C'è da dire che la lettura mi ha sempre accompagnata, l'affetto regalatomi dai libri mi ha cullata così tante volte...

Nella mia infanzia ci sono molti libri che ho letto nelle versioni vintage, per così dire, dei miei genitori. Mentre scrivo visualizzo perfettamente la sovracopertina di Kim di Rudyard Kipling, un po' stropicciata agli estremi, con quei colori esotici e il protagonista immerso nella natura indiana. Mi piaceva da matti immergermi nei libri dei miei, recuperare una parte di quelle storie che erano anche parte di loro. Kim è stato uno di quei romanzi. La vita vagabonda del ragazzo, che mostra un'India impietosa ma leggendaria, tra le città e la natura incontaminata, mi ha fatto innamorare del viaggio. Il viaggio nel mondo e all'interno di sé. L'avventura di spionaggio, mescolata alle vicende spirituali dei monaci tibetani, mi è stata spiegata poi dai miei genitori, contribuendo a legare ancora di più il rapporto affetto-libri.

Mentre crescevo capivo quanto la ribellione facesse parte di me. Quell'essere un po' stravagante, quel sentirmi costantemente fuori posto ma sostanzialmente serena di ciò che credevo mi ha fatta innamorare de Il barone rampante di Italo Calvino. Un must scolastico che mi ha però colpita nel profondo: il rifiuto totale delle regole in modo pacifico, creativo e onesto. Anche qui ritorna il tema del viaggio, onirico, avventuroso e romantico: l'essere più lontano da terra fa vedere le cose con un punto di vista tutto nuovo. Le vicende molto umane di Cosimo, unite alla sua testardaggine, hanno contribuito a costruire il mio ideale di integrità, da mantenere costi quel che costi.

Altro romanzo cardine della mia infanzia è stato Piccole Donne di Louisa May Alcott. Letto in più riprese, forse perché alla prima troppo drammatico e alla seconda troppo complesso, mi ha fatto riflettere sull'enorme forza delle donne. Sulle sfumature femminili, sulla tenacia e sull'amore. Sapevo che la nonna, ai tempi della guerra e con altri nove fratelli, aveva vissuto una situazione di semi-povertà.

Nella mia mente probabilmente sovrapponevo le due cose, comparandole con la nonna allegra, vitale e dolcissima che avevo – e ho tutt'ora – a fianco. Quasi superfluo dire che mi sono identificata così tante volte con Jo da non riuscire a contarle.

Nel frattempo sono diventata adolescente, ho cominciato il liceo, ho aperto i miei orizzonti e mi sono confrontata sempre di più con il mondo. In quel periodo ricordo di aver letto tutti i libri di Niccolò Ammaniti, tutt'ora scrittore che adoro; onirico e umano al punto giusto, sa toccare delle corde della mia mente che non pensavo nemmeno esistessero. In particolare, oltre al famoso Io Non Ho Paura, mi ha segnato Ti prendo e ti porto via. Due vite separate ma intrecciate dal destino, quella di un ragazzino e di un adolescente, in una Maremma quasi utopica. La scuola, l'amore, il rapporto con gli insegnanti – tragico nel libro – l'amore e la voglia di costruire un futuro diverso, migliore, forse altrove. Pazzescamente bello.

Sempre rimanendo nell'ambito degli scrittori italiani, un libro in particolare mi ha ammaliata nell'adolescenza: Castelli di rabbia di Alessandro Baricco. Utopico, certo. Dichiaratamente fuori dalla realtà. Ma incredibilmente umano. Semplice e chiaro seppur immerso nel fantastico. Mi ha insegnato che alle volte bastano poche parole, quelle giuste. Che i silenzi servono, che i binari servono per viaggiare ma lo si può fare anche stando fermi. Che amarsi per ciò che si è non è mai sbagliato. Che prendersi cura di ciò in cui si crede è la forza che ci mantiene vivi, insomma. Sì, da adolescenti la vita è così, romantica nel senso ottocentesco del termine, tra viaggi e ideali. E io credo che sia proprio così che dovrebbe essere.

“C'è una dignità immensa, nella gente, quando si porta addosso le proprie paure, senza barare come medaglie della propria mediocrità. E io sono uno di quelli”.

Il terzo libro che ho voluto inserire nel racconto della mia adolescenza è, immancabilmente On the road di Jack Kerouac. Faccio una premessa: l'ho letto poi anni dopo. E sì, leggerlo da adulti probabilmente lo rende molto più noioso di quel che si crede.

Ha passaggi molto lunghi e ricchi di divagazioni, lo stile narrativo personalmente non mi appassiona troppo. Ma ai tempi, oh se mi ha appassionata. Il sogno americano, quello che mi ha portata ad andare a vivere dall'altra parte del mondo per sei mesi a vent'anni, era già lì, a pompare sangue nel cuore al ritmo di quelle pagine. I viaggi, le valigie, i sogni, le speranze, il mito dell'On the Road, delle anime perse. Tutto lì. Il cult. Me lo sono divorato, ai tempi. E ricordo ancora adesso le sensazioni che mi ha dato. Probabilmente è vero, che ogni libro ha un suo momento per essere letto.

Così crescevo, e non ho mai smesso di viaggiare. Con la testa, col cuore e pure col corpo. A 22 anni ho fatto domanda per studiare sei mesi in America. Mi hanno accettata e io, col cuore in gola e le lacrime in aeroporto, ho fatto valige e borsoni e sono partita. L'ho vissuto, il mio sogno americano, in quella terra così bella e piena di contraddizioni, ho amato ogni minuto di viaggio. Di quella follia che solo le esperienze a vent'anni ti regalano. Sei mesi di viaggi davvero On the Road, in pullman, per ore e ore inseguendo strade statali tutte dritte in mezzo al niente, tra i campi, le farm, il cielo così incredibilmente grosso. In quel periodo pieno di sogni – e in quello successivo - ricordo di aver letto libri che rimanessero nell'onirico. Sono partita con il classico Cent'anni di solitudine, di Gabriel Garcìa Marquez. Forse, e dico forse, il mio libro preferito. Un albero genealogico che racconta mille vite, morte e vita che si intrecciano costantemente, guerra e pace, amore e odio, tutto in un libro solo.

Lasciar viaggiare la mente è sempre stata una mia necessità. Costruire mondi che stessero nel limbo tra la realtà e l'utopia mi ha sempre rassicurata. Luoghi tutti miei in cui stipare tutto quello che non rientrava nella quotidianità. La maestria nello scrivere di Marquez mi è entrata nelle vene, e non si è mai più spostata.

Quando sono tornata da New York è stato un momento di rivoluzioni. E, mentre le affrontavo, ho preferito rimanere nel limbo della letteratura sudamericana. Ho qui la mia copia di La casa degli spiriti di Isabel Allende che mi sta chiedendo di rileggerla, adesso. Mollare tutto e rileggerla. Perché, al pari di Marquez anche se con modalità diverse, la famiglia, il magico, il mistico e lo spirituale sono per me un richiamo irresistibile. Quell'enorme casa fatata, un po' alla Frida Kahlo, i riferimenti storici, il dialogo tra aldiquà e aldilà, tutto in un resoconto familiare che sa raccontare l'umanità di un popolo. L'ho amato, in ogni pagina.

Sempre alla ricerca di estremi e di sfumature umane sono rimasta ammaliata da Che tu sia per me il coltello di David Grossman. Intenso, quasi esagerato, un crescendo di emozioni e ossessione, di fragilità e di rapporti umani complessi che vanno oltre le etichette e le immagini classiche di famiglia, coppia, relazione. Il protagonista che, sparendo per due giorni, si chiude nella camera d'albergo tappezzandola di lettere, è teneramente tragico, un aggrapparsi alle parole per sfuggire alla realtà o forse renderla ancora più vera. Un romanzo epistolare che è un climax di sentimenti, un contatto profondo senza alcun contatto fisico. Mi ha segnata per l'estrema importanza che hanno le parole.

Da quando ho iniziato a scrivere per professione, da giornalista e blogger, ho iniziato a leggere forse con ancora più voracità di prima.

Nel mio viaggio di letture sono passata dal Sudamerica al Nord, e i libri che mi hanno segnata di più, e più vicini al presente, sono Invisible Monsters di Chuck Palahniuk, Purity di Johnatan Franzen e Alta Fedeltà di Nick Hornby.

Invisible Monsters è letteralmente un pugno in faccia. Un crescente scambio di matrioske in cui ognuna contiene un segreto, una perversione, una paura, un dolore, una sfaccettatura dell'umana follia. E degli umani sentimenti di insicurezza. Il tutto portato all'estremo in pieno stile Palahniuk. Mi ha insegnato a guardare oltre alle apparenze. A comprendere che le ragioni che stanno dietro alle cose non sempre sono lineari e comprensibili.

Purity è un intreccio di storie firmato dalla maestria di Franzen: letteratura americana allo stato puro. Un rapporto madre-figlia ossessivo, il sottofondo del giornalismo d'inchiesta sempre ben presente, le grandi fughe di notizie alla Wikileaks, amori non corrisposti e ricerca di sé. Ingredienti perfetti e sapientemente mescolati, che mi hanno fatto chiedere a me stessa sino a che punto vale la pena fidarsi nella vita.

L'ultimo romanzo che voglio citare nel mio curriculum, Alta Fedeltà, è un quadro di incredibile realismo: un uomo sui trent'anni, in una Londra quasi contemporanea, pieno di sogni infranti, amori finiti e mosse sbagliate. Un amore viscerale per la musica, un negozio di dischi che tentenna a decollare, un rapporto amoroso che va a scatti.


Lui terribilmente insicuro, tanto da andare a chiedere a tutte le ex fidanzate della sua vita quali fossero i motivi delle rotture. La vita che sembra sfuggirgli dalle mani, un'apatia congenita e una voglia di riscatto che è difficile da soddisfare. Comico nella sua tristezza, il protagonista rispecchia un po' le insicurezze di tutti. Il bisogno di essere accettato, di valere qualcosa, di significare qualcosa. E non è quello che cerchiamo tutti?